La storia del Masters, ufficialmente iniziata nel 1934, forse si dovrebbe retrodatare di otto anni, perché senza l’uragano che investì la Florida nel settembre del 1926 gli eventi avrebbero preso sicuramente una strada diversa, magari senza neanche partire da Augusta. Ma andiamo con ordine.
L’Augusta National rappresenta la realizzazione di un sogno di Robert Tyre Jones, detto Bobby, uno dei più grandi giocatori di tutti i tempi. Voleva fondare un circolo dove le tradizioni del gioco, alle quali era profondamente attaccato, fossero non solo osservate ma anche tramandate, ma desiderava anche un club in cui poter giocare insieme agli amici in un ambiente tranquillo, lontano dagli sguardi degli spettatori. Questa idea se l’era portata dietro per tutta la carriera da giocatore e, nel 1930, quando si ritirò dall’attività agonistica ad appena 28 anni, decise che era il momento di portarla a compimento.
In quell’anno Jones aveva compiuto la più straordinaria impresa golfistica che si potesse immaginare: vincere i quattro major dell’epoca, diversi da quelli attuali. Erano l’U.S. Open, l’Open britannico e i due relativi campionati dilettanti. Un giornalista per sintetizzare l’impresa, rubò al bridge il termine di "grande slam", che poi è rimasto nella terminologia golfistica. Alla fine di quella stagione Jones annunciò il suo ritiro "perché non aveva più stimoli" avendo raggiunto tutti i traguardi che si era prefissati.
Colse di sorpresa i suoi fans, ma non chi gli era più vicino. Aveva già manifestato le sue intenzioni e la quarterna nei major gli offrì soltanto una scusa plausibile. Jones, all’apparenza un freddo calcolatore quasi una macchina nel distruggere i propri avversari, in realtà soffriva molto la pressione. Durante la gara, ad esempio, non riusciva ad allacciare i bottoni della camicia e quando i tornei erano molto importanti non toccava addirittura cibo.
Era giunto dunque il momento di liberarsi del fardello e di poter giocare a golf senza la presenza continua di suoi tifosi o di semplici appassionati, che continuarono a seguirlo a schiere ogni volta che scendeva in campo, anche dopo il ritiro.
Qualche anno prima aveva conosciuto un finanziere di New York, Clifford Roberts, al quale aveva parlato del suo progetto. Questi ne era rimasto entusiasta e, appena Jones lo richiamò per passare dalla teoria alla pratica, fu ben felice di collaborare. Divenne poi il primo direttore del club, carica che ricoprì fino al 1976.
Roberts, in una riunione con Jones durata non più di dieci minuti e tenuta poco dopo l’annuncio ufficiale del ritiro, si fece carico di tutti i problemi finanziari. Suggerì, inoltre, di scegliere come località Augusta, purché si fosse trovato un terreno adatto. Sfondò una porta aperta, in quanto a Jones la cosa non poteva che far piacere: infatti nella città del cotone andava spesso a giocare d’inverno, per questioni climatiche, sobbarcandosi volentieri i circa trecento chilometri di strada che la separavano dalla natìa Atlanta, dove il freddo si faceva sentire.
Un amico comune, Thomas Barrett, consigliò loro di visitare una proprietà di circa centocinquanta ettari, rimasta quasi abbandonata dopo la morte dei proprietari.
Fruitlands Nurseries, così si chiamava la proprietà, apparteneva agli indigeni ed era stata acquistata nel 1857 da un nobile belga, il Barone Louis Mathieu Edouaerd Bercksman il cui hobby era l'orticoltura. Insieme a figlio Prosper Julius Alphonse, agronomo, importarono una grande quantità di piante sconosciute o poco diffuse negli Stati Uniti, le fecero ambientare e poi le commercializzarono in tutto il Sud. In breve tempo, crearono il più importante vivaio specializzato della Georgia e degli stati vicini.
Oggi questo assortimento di piante rare costituisce l’invidiatissimo patrimonio arboreo dell’Augusta National, compresa la doppia fila di magnolie piantate prima della guerra civile, che portano alla club house, e le azalee. Il Barone Bercksman scomparve nel 1883, il figlio nel 1910 e l’attività praticamente cessò nel 1918.
Jones visitò la tenuta verso la fine del 1930 e ne rimase affascinato. Osservando la vegetazione lussureggiante e l’andamento del terreno dal luogo ove oggi c’è il putting green, esclamò: "E’ l’ideale. Questo terreno è rimasto abbandonato per tanti anni soltanto perché aspettava che qualcuno venisse a costruirci sopra un campo da golf".
L’acquisto della piantagione fu rapidamente perfezionato e fu deciso anche di dare al futuro circolo il nome di Augusta National, ma tutto ciò probabilmente non sarebbe mai avvenuto senza l’uragano di cui dicevamo o forse è meglio dire senza l’intervento della natura.
Alcuni anni prima il Commodoro Perry Stoltz era proprietario di un grande albergo di Miami Beach, il Fleetwood Hotel, che considerava il primo anello di una sua futura catena alberghiera. Così aveva scelto proprio la Fruitland Nurseries per creare un secondo Fleetwood Hotel, con un progetto che prevedeva anche un campo da golf di diciotto buche.
Affascinato anch’egli dal luogo, Stoltz nei primi mesi del 1926 era andato addirittura ad abitare nell’antica dimora coloniale, che avrebbe tuttavia demolito quando fosse entrato in funzione l’hotel. Diede anche inizio ai lavori di sbancamento del terreno, ma evidentemente a Madre Natura quelle soluzione non piaceva e intervenne a suo modo. Doloroso, come fa sempre quando si ribella ai soprusi degli uomini. A settembre un violento uragano, uno dei peggiori della storia, colpì il sud della Florida: andarono distrutti migliaia di edifici, tra i quali anche il Fleetwood Hotel. Così Stoltz fu costretto a dichiarare bancarotta e dovette abbandonare il progetto.
In tal modo, dunque, cambiò il destino di una località che probabilmente senza quell’uragano non sarebbe mai divenuta così famosa. Inoltre la dimora coloniale, che Stoltz voleva abbattere, è rimasta come patrimonio storico e costituisce il nucleo della club house dell’Augusta National.
Per la progettazione del campo Jones si rivolse al dottor Alister Mackenzie, un medico scozzese che aveva lasciato la professione per dedicarsi a tempo pieno alla costruzione dei campi. Era noto in Irlanda, in Nuova Zelanda e in Australia, mentre negli Stati Uniti aveva disegnato due soli percorsi, il Pasatiempo e il Cypress Point. Jones aveva giocato alcune volte, un paio d’anni prima proprio sul Cypress Point, nella penisola di Monterey in California e ne era rimasto entusiasta.
I due, tra l’altro, erano in perfetta sintonia su alcuni concetti di costruzione: evitare ostacoli di aspetto eccessivamente artificiale come i bunkers, favorire quelli naturali quali ruscelli, ondulazioni del terreno e dossi erbosi, evitare un rough eccessivamente punitivo. L’obiettivo era quello di ottenere un percorso che permettesse a tutti i giocatori di divertirsi, indipendentemente dal livello di abilità. E in un’epoca in cui ogni campo prevedeva almeno di un centinaio di bunkers, l’Augusta National ne presentò soltanto ventinove. Non mancarono discussioni e polemiche, ma alla fine ebbero ragione Joens e Mackenzie, perché si determinò una controtendenza e i bunkers nei nuovi tracciati si ridussero sensibilmente.
I lavori iniziarono nel 1932 e furono terminati l’anno dopo. Il percorso fu inaugurato nel dicembre del 1932, riservato a pochi soci, ma Alister Mackenzie non potè vedere la sua opera, poiché scomparve qualche mese prima. L’apertura ufficiale avvenne nel gennaio 1933, ma solo con la fioritura primaverile l’Augusta National rivelò la sua stupenda coreografia. Tracciato eccellente, naturalmente, anche sotto l’aspetto tecnico tanto che Jones ebbe a dire: "Non c’è nessuna buca dove, giocando con giudizio, non si possa ottenere il birdie, ma non ne esiste nessuna dove non si rischi il doppio bogey, non usando il cervello".
IL PRIMO MASTERS
Creato il campo, si pensò di ospitare un grande evento a partire dal 1934. Inizialmente si pensò all’Open degli Stati Uniti, ma sarebbe stato itinerante e non era nei piani di Jones e Roberts, i quali andarono a New York per discutere dell’argomento con un altro socio, W. Alton Jones. Alla fine della riunione si decise per un torneo a inviti riservati a grandi giocatori, da disputare ogni anno a primavera. Roberts propose di chiamarlo "The Masters", ma Bobby Jones si oppose ritenendo che nel nome ci fosse un peccato di presunzione. Si optò per "Augusta National Invitation Tournament", dizione che rimase fino al 1938 quando divenne l’attuale "The Masters Tournament". Jones fu costretto ad accettare, perché in sostanza la stampa aveva già battezzato così il torneo sin dall’inizio. E, sebbene non vi siano testimonianze dirette, è pressoché certo che fu lo stesso Roberts a intervenire sui giornalisti perché prevalesse la sua idea originaria.
Quando partirono i primi inviti Bobby Jones non pensava neanche lontanamente a una sua partecipazione, tuttavia la pressione dei soci e, soprattutto, degli sponsor lo costrinsero a scendere in campo. Si classificò al 13° posto.
La stampa enfatizzò l’evento con articoli entusiastici: colpì in particolare l’atmosfera, dalla partecipazione (Jones volle tutti i più celebrati campioni del momento) e dal percorso fiorito.
Uno dei giornalisti presenti più noti fu Grantland Rice, inviato di "The America Golfer", rivista specializzata che cessò le pubblicazioni nel 1936 per problemi economici. Fu una delle migliori in assoluto alla quale collaborarono anche giocatori famosi come lo stesso Jones, Ted Ray, Tommy Harmour e Walter Hagen.
"L’opinione generale è che Bobby Jones e Augusta abbiano dato inizio a un evento che si tramuterà in uno tra i più grandi della storia del golf. Sicuramente la prossima edizione sarà superiore per interesse e per sensazioni emotive". Questa è la frase con la quale Rice concluse l’ultimo dei suoi servizi da Augusta, ma su tale concetto improntò praticamente tutte le sue corrispondenze.
"Su una cosa si può scommettere: il torneo annuale dell’Augusta National si avvia a divenire uno dei più grandi appuntamenti golfistici" scrisse in uno dei primi interventi, elencando poi una serie di motivi a sostegno di questa tesi, impressionato innanzi tutto dallo scenario e dall’incredibile partecipazione di pubblico. I parcheggi ospitarono auto provenienti da ben trentotto Stati dell’Unione e persino dal Canada.
Probabilmente fu proprio la presenza di Jones a scatenare tanto entusiasmo, al ritorno sui fairways dopo quattro anni di assenza, tanto che i grandi campioni invitati si trasformarono inevitabilmente in comprimari. Non era pensabile che potesse vincere, mancando del ritmo di gara e dell’allenamento costante, tuttavia incantò per la sua classe ancora immensa.
Rice raccontò di un Walter Hagen che colpiva la palla come mai aveva fatto fino a quel momento e di un Jones impareggiabile sul green.
Furono tanti i fans che si recarono ad Augusta convinti di vederlo addirittura primeggiare, ma Rice spiegò: "Le speranze di vedere Jones vincente non erano fondate sul piano tecnico, ma più che comprensibili su quello umano".
Non aggiunse commenti sulla prestazione di Jones, ma si limitò a riportare la convinzione dei suoi sostenitori pronti a scommettere su una sua vittoria l’anno successivo, con dodici mesi a disposizione per allenarsi. Ma quel tredicesimo posto, alla pari proprio con Hagen, sarebbe rimasto il miglior risultato conseguito da Bobby Jones in nove partecipazioni.
Vinse Horton Smith che non immaginò, quel giorno, di aver firmato un major. Mise a segno il colpo vincente alla buca 17, con un putt di quattro metri. L’anno successivo quella buca divenne la numero otto, perché fu invertito l’ordine di gioco dei due gruppi di nove buche, decisione ancora in vigore.
Rice descrisse colpi eccezionali, come quello con cui Craig Wood imbucò dalla distanza facendo passare la pallina tra i pini. Pose l’accento sulla "hole in one" che Ross Somerville conseguì alla 7ª buca, ma anche sugli errori di Ed Dudley che fallì otto occasioni da birdie sugli ultimi nove green.
Il cronista assegnò praticamente un dieci al percorso "che richiede una certa versatilità di gioco e varietà di colpi. In particolare occorrevano tiri lunghi e spettacolari nei par cinque per raggiungere il green", senza dimenticare l’aspetto coreografico "Come scenario il tracciato si è mantenuto in par".
Il Masters, comunque, decollò più rapidamente di quanto credesse Grantland Rice. Merito delle prodezze dei suoi protagonisti e di quell’alone di leggenda che si creava attorno a loro e ai loro colpi, descritti soltanto sulla carta stampata, con ampia facoltà all’immaginazione di rielaborarli.
E un tiro, entrato nella storia del golf, fece da enorme cassa di risonanza già nella seconda edizione. Lo realizzò nell’ultimo giro Gene Sarazen alla buca 15, par 5, mettendo a segno la pallina alla distanza di 220 yards, utilizzando un legno 4. Con l’albatross ecuperò tutti insieme i tre colpi di ritardo che aveva da Craig Wood (che non vinse mai il torneo malgrado ottime performances) e poi lo superò il giorno dopo nello spareggio sulla distanza di 36 buche.
Nicola Montanaro
RIPRODUZIONE VIETATA